Una mattina a Portobello

Due fine settimana fa, dopo un’attesa che mi è sembrata eterna (il viaggio era stato prenotato due mesi prima), siamo stai a Londra. Tutti e tre, e solo per il week-end: con una bambina di quattro annida compiere a pochi giorni i ritmi sono stati molto meno frenetici di quelli che avremmo tenuto per tre giorni fra adulti, ma siamo comunque riusciti a vedere e divertirci abbastanza perchè fossimo tutti contenti.

Il mio vero momento di gloria è stato il sabato mattina, quando siamo andati al mercato di Portobello Road. Quando due mesi prima di partire abbiamo comprato i biglietti aerei, ho deciso sbito che non potevo mancare a questo appuntamento: Portobello costituisce infatti un punto fermo per chi come me è appassionato di cermiche inglesi vintage.

Sabato mattina ci siamo alzati molto presto, e dopo una vera colazione all’inglese in hotel abbiamo preso la metro per raggiungere Notting Hill. Questo quartiere, uno dei miei preferiti a Londra per essere defilato dal centro e lontano dalla pazza folla, ma sempre vivace, ci ha accolto subito con le sue belle case ordinate

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e colorate.

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Erano circa le nove del mattino, ma le persone iniziavano già ad arrivare per curiosare al mercato. Tant’è che per trovare la strada dalla stazione di Notting Hill Gate, basta seguire il flusso principale di persone.

E già alla prima bancarella è pura meraviglia. Teiere, piatti, tazze, argenteria…

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Alcuni negozi sono più specializzati, come questo che offre vecchi attrezzi sportivi,

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questo specializzato in vecchi giocattoli

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o questo con una sezione di commemorative potteries dedicate alla Regina Elisabetta II. Mi hanno fatta pensare alla mia amica Marina del blog Altezza Reale, che quello stesso giorno teneva a Parma una conferenza proprio su questo tema.

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In un’altra bancarella vendevano piatti bellissimi.

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A un certo punto il mercato sulla strada, costeggiato da negozietti, raddoppia in una zona di mercato coperto sempre traboccante di potteries e cianfrusaglie adorabili.

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Il mio piano di guerra per lo shopping era questo: guardo tutto e alla fine scelgo qualcosa da comprare. Non avevo fatto i conti con molti elementi inaspettati.

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Il primo, ovvio, è che avrei comprato tutto. Il secondo, in parte previsto, era la paura che gli oggetti più delicati potessero rompersi in valigia. Il tempo ridotto della nostra permanenza a Londra non mi permetteva di andare, come avrei voluto, ad un ufficio postale per imballare bene tutto e spedirlo in Italia. Avrei potuto puntare sulle posate, ma non credo che mi avrebbero fatto passare il bagaglio a mano con coltelli e oggetti appuntiti dentro.

Ultima ragione: all’improvviso, verso le undici, la folla al mercato era diventata insostenibile. Mia figlia non ne poteva più, e certo non si poteva pretendere che pazientasse ancora,  anche perché sapeva che subito dopo saremmo andati al Museo di storia Naturale a vedere i dinosauri.

Il giro a Portobello si è concluso con quasi niente di fatto sul fronte degli acquisti, ma l’atmosfera, le chiacchiere con gli antiquari, la bellezza degli oggetti esposti mi hanno lasciata piena di gioia e gratitudine per queste ore beate.

Ti ho lasciato una rosa…

Quando al sabato mattina siamo a Reggio Emilia e non abbiamo particolari impegni, ho un paio di appuntamenti fissi. In Piazza Fontanesi, una delle piazze più belle del centro, si tiene il mercato dei contadini. Immaginate un piazzetta alberata, circondata da case: l’effetto è quello di una Montmartre emiliana, assolutamente piacevole. Al mercato faccio rifornimento di frutta e verdura da un paio di rivenditori fidati. Stamattina al mercato suonava da vivo un gruppo jazz, e la spesa è stata un momento di relax tra suoni, colori e profumo di verdure freschissime.

Sulla strada per arrivare in Piazza Fontanesi, si trova ahimè un mercatino dell’usato dove ognitanto trovo qualcosa di interessante da comprare, nel reparto ceramiche ovviamente. Stamattina il mio sguardo è stato catturato da due piatti da portata inglesi, molto belli e ad un ottimo prezzo, ma con una dimensione difficile da stivare. Devo capire dove posso metterli. Poi c’era un servizio da macedonia in ironstone bianco e blu, ma non aveva un decoro che mi attirasse più di tanto.

Infine, esposte su un grande armadio da farmacia – che se solo avessi il posto avrei preso anche quello… – facevano bella mostra di sè delle tazze dipinte a mano. Due, in particolare, avevano un prezzo stracciato perché senza piattino. Erano perfette anche così, sono state subito mie.

Questa è la prima. Ha una decorazione a fiori spontanei di primavera, con una doratura sul manico e sul bordo interno. La forma è cilindrica e abbastanza bassa, porcellana sottilissima, trasparente in controluce.

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Ecco altri particolari.

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I papaveri fanno da padroni su tutta la composizione decorativa. Le mie foto scattate con il telefono rendono poco l’idea ma tutti i fiori sono ottimamente eseguiti.

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La seconda tazza orfana di piattino ha una forma particolare e un decoro delicatissimo, a rose e non-ti-scordar-di-me.

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In questo caso il disegno si ripete pressoché identico intorno alla tazza.

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Le due tazze hanno la stessa firma, e si riconosce la mano di una decoratrice esperta, mi dispiace di non essere riuscita a scattare immagini di migliore qualità per darvene un’idea precisa.

Un dettaglio della prima tazza mi ha colpito più di tutti gli altri: sotto, con la firma, chi l’ha dipinta ha lasciato una rosa.

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La base di una tazza non si guarda mai. Voglio dire, io sono maniaca e spesso mi sono ritrovata a girare sottosopra una tazza per controllarne il marchio, ma una persona invitata a bere un tè non gira le tazze per osservarne questo lato nascosto.

La rosa disegnata in questa zona solitamente lontana da sguardi indiscreti mi ha fatto capire come questo oggetto sia stato amato in primis da chi l’ha dipinto. Era un gesto di gentilezza per tutti coloro che avrebbero maneggiato questo oggetto.

Forse questo è l’aspetto che più mi intriga di questi oggetti usati: continuare ad amarli, falli vivere ancora, godere di un attimo di serenità quotidiana attraverso la loro bellezza.

Oggi ripenso ad altre tazze che mi avevano colpito, dipinte dalla stessa mano aggraziata. Vorrei averle comprate tutte, ma il problema è sempre quello di dove contenerle.

Per fortuna il negozio alla domenica è chiuso, per il momento non posso fare follie.

Mi accontento di tanta bellezza e cerco un posto in tripla fila nella vetrinetta…

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Ecco le due tazze con la prima peonia del mio giardino. Spero che la pioggia e la grandine di ieri non abbiano compromesso una fioritura che quest’anno sembra ricchissima.

Buona domenica.

 

Un tè con Elisabetta II a Parma

Ha inaugurato ieri al Museo Glauco Lombardi di Parma la mostra “Un tè con Elisabetta II” che espone la collezione di Marina Minelli dedicata alle commemorative potteries dedicate alla famiglia reale inglese.

Marina Minelli, storica, giornalista e autrice del blog Altezza Reale è probabilmente la maggiore esperta italiana di famiglie reali (presenti e passate). La sua passione per il mondo royal si accompagna ad un altro grande interesse, che ci accomuna: quello per le ceramiche inglesi.

Unendo le due passioni di Marina si incontra una produzione inglese del tutto particolare, quella appunto delle commemorative potteries, che altro non sono se non memorabilia celebrative degli eventi più salienti della monarchia britannica (nascite, matrimoni, incoronazioni, anniversari). Questi oggetti, molto apprezzati nel Regno Unito, spesso sono dedicati al rito quotidiano britannico per eccellenza, il tè, dando vita ad una vasta produzione di tazze, mg, teiere, zuccheriere, eccetera.

In pochi anni Marina ha raccolto una collezione di tutto rispetto, con pezzi che partono dalla seconda metà del periodo Vittoriano ed arrivanoad oggi.

Ieri ho avutpo il piacere grandissimo di partecipare alla visita guidata della mostra, tenuta proprio dalla collezionista, insieme allla direttrice del museo, Francesca Sandrini. L’esposizione è ricca, ispirata e piena di oggetti che raccontano, insieme alla storia della Royal Family, anche l’evoluzione dei costumi nei confronti del tè come rito e soprattutto nel modo in cui i britannici percepiscono la monarchia.

Allestimenti curati nel dettaglio e alcune didascalie esplicative completano il percorso di visita. Aggiungo due parole sul Glauco Lombardi prima di lasciarvi ad alcune immagini scattate ieri. Il museo raccoglie la più importante collezione dedicata a Maria Luigiad’Austria, Imperatrice dei frnacesi come seconda moglie di Napoleone Bonaparte, e poi amatissima Duchessa di Parma e Piacenza dopo il Congresso di Vienna. Il museo è interesante per molti aspetti, è una raccolta eclettica e vivace, restituisce un ritratto davvero molto umano della Duchessa, che nelle terre italiane che ha aministrato è ancora ricordata con affetto per il suo governo moderato e a tratti “illuminato”.

In poche parole: Parma è una città bellissima, alla quale sono molto legata per questioni biografiche, e questa è la stagione dell’anno in cui la città è più bella che mai. Vale certamente la pena di passarci un fine settimana, e dedicare tempo alla visita del museo e della collezione di Marina Minelli.

Ecco qualche immagine dei pezzi che più mi hanno colpita.

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La vetrinetta con i pezzi più antichi. La tazza bianca e blu sulla destra è divina.

20170429_150717-e1493554809608.jpgPer i produttori di ceramiche inglesi l’abdicazione di Edoardo VIII fu un grave colpo: la notizia arrivò quando molti oggetti erano già stati ultimati, e all’improvviso diventarono invendibili. Si rimediò sostituendo il ritratto del nuovo re Giorgio VI con la regina Elizabeth, mantenendo invariato l’impianto decorativo studiato per il fratello. Qui due mug opera di Laura Knight, con Edoardo VIII e con Giorgio VI.

20170429_150835Il programma dell’incoronazione di Giurgio VI (in mostra trovate anche quello dell’incoronazione della figlia e attuale sovrana Elisabetta II), un documento molto raro.

20170429_142734E infine due degli allestimenti proposti. Ho fotografato quelli in bianco e blu perché come sapete sono i colori che prediligo.

20170429_142753Le informazioni sulla mostra:

Un tè con Elisabetta, Museo Glauco Lombardi

Palazzo di Riserva – Strada G. Garibaldi, 15

Orari del museo
da martedì a sabato: 9.30 – 16.00
domenica e festivi: 9.30 – 19.00
lunedì 1 maggio apertura straordinaria

Visite guidate alla mostra, curate dalla collezionista:

sabato 29 aprile ore 14 e 30
domenica 30 aprile ore 10 e 30 e ore 17

sabato 20 maggio ore 10 e 30
domenica 21 maggio ore 11 e ore 16

sabato 10 giugno ore 10 e 30
domenica 11 giugno ore 11 e ore 16

Una conferenza/lezione dal titolo “Il rito dell’afternoon tea dalla regina Vittoria a Elisabetta II” è prevista sabato 20 maggio alle ore 15 e 30. L’ingresso alla mostra è gratuito.

 

Una tovaglia, tre soluzioni

Lo scorso fine settimana, complice il tempo in più regalato dal ponte del 25 aprile, sono riuscita a dedicare un po’ di tempo alle tavole.

C’è una tovaglia che più di tutte associo alla primavera. Come altre un “prestito” di mia madre, è in cotone azzurro ricamato a fiori sulle sfumature di rosa. La tovaglia è rettangolare, per 10 perone, io l’ho usata sul tavolo quadrato per cui il ricamo è solo parzialmente visibile.

Ho apparechiato per il pranzo di domenica, con un menù di pesce: antipasto di crostini al salmone e poi spaghetti con le vongole. Ho scelto dei piatti blu, e dopo qualche prova, ho messo i bicchieri da acqua rosa e calici Alessi per il vino. Non è evidente dalle foto ma i calici sono particolari,  leggermente asimmetrici sul bordo.DSC_0120

Ad abbellire la tavola i fiorellini primaverili raccolti da mia figlia.

DSC_0122Ho apparecchiato con piatti diversi, spaiati, armonizzando l’insieme con i piatti da antipasto, Spode Italian Blue.

Ecco la prima soluzione. Il piatto per il rpimo in realtà è sul verde, ma mi piaceva molto comunque.

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Ecco il secondo abbinamento.

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Ed ecco l’ultimo posto a tavola, creato utilizzando uno dei piatti bianchi e blu della collezione Old Britain Castle di Wedgwood.

Quale abbinamento preferite?

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L’ultima soluzione mi ha fatto venire voglia, alla sera, di apparecchiare con i piatti Wedgwood. Il menù era mio complice: la cena prevedeva una zuppa di ceci, e così ho utilizzato le deliziose tazze da consommè.

Ho tenuto la stessa tovaglia: sono tavole solo per noi tre di famiglia, e soprattutto la tovaglia in questione non era sporca. Da qui l’idea di vedere come stava con diverse mise en place.

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Ho invece cambiato ad ogni pasto i tovaglioli: ne ho dieci, potevo strafare… In questa tavola li ho messi sul piatto, piegati a triangolo, appena davanti alla tazza da consommè.

DSC_0130E così è arrivato il lunedì; un lunedì speciale, di vacanza.

Sulla tavola con ricami rosa non potevano mancare i piatti rosa, che ritraggono anche in questo caso i castelli inglesi, ma sono prodotti da Jonson Brothers.DSC_0132Ho apparecchiato con posate vintage in Sheffield, e bicchiari bianchi.

DSC_0133Sul tavolo ho aggiunto tre candele rosa, in nuance diverse.

DSC_0135Ecco anche il piatto fondo, che ritrae il  bellissimo Catello di Windsor.

DSC_0136Avrei voluto completare la tavola con dei fiori rosa, ma è tardi per i gicinti in balcone e presto per le peonie del giardino (che quest’anno sono veramente cariche di boccioli).

Aspetto i vostri commenti sulle tre tavole, e se anche voi avete la fortuna di avere qualche giorno di vacanza, buon riposo!

 

Mason’s, l’ironstone e alcuni pezzi nuovi (seconda parte)

Dopo la breve introduzione fatta sulla produzione Mason’s, eccomi per presentarvi i miei  (ormai vecchi!) acquisti.

Dicevo nella prima puntata di essere rimasta molto colpita da due decorazioni, per altro simili nei colori, di Mason’s: il Regency e lo Strathmore. Non potendo decidere da un’immagine su internet quale delle due mi piacesse di più per arricchire la mia collezione di tazze inglesi, ho cercato di procurarmi due “campioni” e meditare sul tema.

Devo dire che dal vivo queste potteries sono davvero spettacolari, i colori sono fantastici e ancora molto brillanti nonostante le tazze mostrino i segni dell’età.

La prima ad essere arrivata è stata lei:

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Una Strathmore in piena regola, nel formato “breakfast cup”, più grande della classica tazza da tè. Quella che George Orwell consiglia di usare nelle sue undici regole per il tè perfetto.

In pratica la capienza delle classiche teacups inglesi è di  200 ml, mentre le  breakfast cups contengono 300 ml di liquido. Ma al di là delle misure, di questa tazza colpiscono i colori brillanti dati a mano sopra al transferware di base, di colore azzurro. Il soggetto rappresentato al centro è un cesto di fiori tipici della campagna inglese.

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Intorno, sul piattino, altri fiori. Nel piatto alcuni particolari sono in rilievo. Questo è un dettaglio per me impossibile da fotografare ma chiaramente percettibile al tatto: la parte più centrale dei fiori grandi, pistilli e stami se non erro, sono riprodotti tramite punti di colore in rilievo.

 

Dopo qualche mese alla prima tazza si è unita un’amica, più piccola e meno “vissuta”, della serie Regency (spesso questa decorazione viene chiamata anche Plantation Colonial). Eccole vicine.

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Ed ecco un dettaglio del piattino per apprezzare meglio il disegno, sempre floreale

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Anche i colori sono simili: azzurro, rosa, giallo, verde. Un pavone fa capolino tra i fiori.

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Insieme alla prima tazza avevo rimediato anche questo vassoietto rettangolare, perfetto per i biscotti o i sandwich da servire con il tè. Uno dei dettagli che preferisco è nei piccoli manici.

DSC_0429Una decorazione in rilievo ottenuta in questo caso con lo stampo del pezzo, e poi dipinta.

Anche le tazze hanno decorazioni molto piacevoli sui manici e all’interno una ghirlanda di fiori richiama i motivi dei piattini

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E per concludere, più le guardo più mi piacciono; tutte e due. Credo di aver scelto di non scegliere, al momento non ho deciso di assortire più pezzi di una delle due tazze, ma di tenerle entrambe da sole, fanno parte del mio piccolo esercito di tazze singole, da far invidia al Cappellaio Matto.

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Voi, in quale vorreste bere il tè?

 

Dieci più uno. I consigli di George Orwell per il tè perfetto.

Mentre facevo ricerche per l’articolo che vi ho promesso dedicato ai miei oggetti Mason’s (trovate qui la prima parte), mi sono imbattuta per caso in una vera chicca, imperdibile per gli amanti del tè, e ho deciso di condividerla con voi.

George Orwell, lo scrittore inglese famoso per indimenticabili romanzi come 1984 o La fattoria degli animali, nel gennaio 1946 scrisse un articolo sull’Evening standard, quotidiano londinese, in cui parlava di come preparare a nice cup of tea, e lo faceva affrontando l’argomento il 11 punti essenziali.

L’autore prima di tutto fa notare come, per quanto il tè sia una bevanda molto diffusa, nei manuali di cucina sia praticamente assente. “Questo è molto curioso”, dice Orwell, dal momento che il tè è uno dei principali segni di “civilizzazione” dei Paesi anglosassoni, attribuendo quindi alla bevanda una grande importanza culturale e identitaria.

Ecco quindi la sua ricetta perfetta.

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Per prima cosa lo scrittore, che era nato in India, raccomanda di usare un tè indiano o di Ceylon (oggi Sri Lanka), e non il più economico prodotto cinese, che sembra non piacere ad Orwell, tanto da fargli dire che “nessuno può dirsi più saggio, più coraggioso o più ottimista” dopo averlo bevuto – proprietà che evidentemente riconosce ai tè indiani. La “nice cup of tea” del titolo dell’articolo originale può nascere solo da questo tipo di tè.

Il secondo punto raccomanda di non preparare il tè in grandi quantità con bollitori, tegamini, tantomeno pentole che farebbero assomigliare il tè a quello pessimo servito nell’esercito. Il tè va preparato in quantità moderate, in una teiera possibilmente di terracotta, ancor meglio se di peltro.

La teiera (terzo punto) va sempre riscaldata, e il metodo migliore è appoggiarla sulla pastra calda della stufa – forse oggi possiamo utilizzare i fornelli ad induzione.

Un tè forte è la quarta dritta, sei cucchiaini colmi di forglie per ogni teiera sono l’ideale in barba alle restrizioni che gravavano sull’Inghilterra del dopoguerra. Questo è un lusso che non ci si può concedere ogni giorno, racconta Orwell, ma “meglio una tazza forte che venti povere”. Lo scrittore racconta anche che gli amanti del tè nell’arco della loro vita tenderanno ad apprezzare un tè via via sempre più intenso.

Il quinto punto mi pare molto importante: le foglie di tè vanno messe direttamente nella teiera, senza filtri o bustine, altrimenti non riusciranno a disperdersi naturalmente nell’acqua e a rilasciare completamente il loro aroma. Al bando quindi le tazze-tisaniere così diffuse oggi, e quei filtri fatti a pinza, tanto comodi ma che effettivamente comprimono terribilmente le foglie.

Sesto: l’acqua deve essere letteralmente bollente, e deve essere nuova ogni volta.

Il consiglio numero sette: a un certo punto il contenuto della teiera va mescolato, o meglio agitato, per agevolare la corretta diffusione delle foglie nell’acqua.

Al punto otto, Orwell raccomanda l’uso di “una buona breakfast cup”, ovvero, specifica, dalla forma cilindrica, non la classica tazza da tè, poco profonda, nella quale il tè diventa “mezzo freddo prima che uno abbia iniziato a berlo”. Ma qui ai apre un altro capitolo: la produzione inglese di tazze prevede varie misure; oltre alla classica tea cup, da sempre è prevista la breakfast cup citata dallo scrittore, che è più alta e più stretta della precedente. Approfondirò questo argomento nel prossimo post.

Nove: scremare il latte prima di unirlo al tè, per non conferirgli un sapore troppo stucchevole. Oggi con il latte prodotto industrialmente questo problema è ormai superato.

La decima raccomandazione si inserisce in una delle eterne querelle britanniche legate alla preparazione del tè, ovvero il dilemma di cosa vada versato prima nella tazza tra il tè e il latte. Lo scrittore si schiera apertamente con chi crede vada versato prima il tè, per regolare meglio la quantità di latte desiderato.

L’ultimo punto raccomanda di bere il tè senza zucchero. Orwell ci dice che nessuno può dirsi veramente amante del tè se “distrugge” il suo gusto intenso dolcificandolo. Lo scrittore insiste aggiungendo che tanto varrebbe allora aggiungere sale o pepe. Una volta zuccherata, la bevanda saprà di zucchero e non più di tè.

Ecco a grandi linee il contenuto dell’articolo, che potete leggere nella versione originale a questo link, e vi consiglio di farlo: la lettura è semplice e il linguaggio di Orwell piacevole come un tè della migliore qualità.

Che differenza rispetto ai nostri tè, spesso preparati di fretta, con l’acqua scaldata al microonde direttamente nella tazza e le bustine preconfezionate. Orwell ci manderebbe a quel paese, e probabilmente rimpiangerebbe l’epoca delle foglie razionate e quindi ancora più desiderate, del latte con la panna, delle stufe che riscaldavano tutto, anche la teiera.

Qui di tè si parla spesso, e non ho potuto tenere per me questo delizioso articolo.

 

 

 

Disastri e soluzioni

Come già sa chi mi segue su Instagram, sabato scorso ho combinato un piccolo disastro.

Avevo acquistato da un po’ di tempo dei piatti di Spode, decorazione Blue Italian, un design storico del transferware inglese che viene prodotto dal 1816 e rappresenta nella parte centrale un bucolico paesaggio italiano, con tanto di romantiche rovine, animali liberi, un laghetto e un castello sullo sfondo. Il bordo alterna fiori a motivi orientaleggianti.

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Fonte immagine: spode.co.uk

La scena centrale intende riproporre gli scorci che durate il Grand Tour i viaggiatori inglesi, ma non solo, potevano ammirare nelle campagne italiane. Per questo la decorazione si chiama Italian, e il blu ovviamente è per il colore caratterizzante, che è veramente bellissimo, soprattutto nei pezzi più datati, dove il colore è molto intenso e il disegno più definito.

 Sabato inavvertitamente uno dei piatti è caduto e si è rotto, come da foto (di pessima qualità, chiedo perdono!).

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Se nella parte superiore del piatto il taglio è piuttosto netto, e volendo facile da riparare, nella parte inferiore, dove è avvenuto l’impatto contro il pavimento, ci sono piccolissime parti di smalto difficili da ricostruire.

A questo punto le possibilità sono queste:

  • goodbye, my darling.

Dimenticarmi di lui, rimpiazzarlo.

  • affidarlo ad un professionista per un restauro.

Anni fa, a mia madre era successo un disastro simile, ad opera di mio fratello che giocando in casa aveva fatto cadere con risultati intuibili un vaso di porcellana.
Mia madre aveva trovato una restauratrice che eseguì un miracolo, incollando anche parti piccolissime senza lasciare traccia, almeno da lontano, del suo passaggio e del danno che l’aveva preceduta.

  • ripararlo seguendo il kintsugi,

la tecnica giapponese che incolla gli oggetti infranti ma lasciando ben visibili tutte le cicatrici della rottura, anzi sottolineandole con l’oro. Quando il kintsugi è ben eseguito, i risultati sono spettacolari, sia su pezzi antichi che su oggetti moderni.

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Fonte immagine: urushi.info

Del kintsugi mi piace molto anche la filosofia che sottende a questa riparazione artistica: un bell’oggetto, anche se rotto, non perde la sua bellezza intrinseca. Il kintsugi fa di un contrattempo, di un difetto intercorso, un’opera d’arte, e arricchische l’oggetto già bello di un significato in più.

Avrete capito che sono ormai orientata per la terza soluzione. La prima non è mai stata presa in considerazione. Ho pensato alla seconda, e raccolto con pazienza i frammenti piccolissimi del mio piatto, tenendoli da parte per un eventuale restauro. Ma una volta incollato il piatto non potrebbe essere più utilizzato per alimenti, andrebbe appeso, o comunque esposto.

A questo punto tanto vale arricchirlo di venature auree, che tra l’altro con il blu stanno bene come con nient’altro: pensate alla bellezza del lapislazzuli con le sue inclusioni dorate.

Rimane solo un aspetto da chiarire: chi lo fa? 😉

A voi è mai capitato di rompere qualche oggetto? Come avete risolto?

 

 

 

Mason’s, l’ironstone e alcuni pezzi nuovi (prima parte)

Mesi fa, e parlo di molti mesi, nel periodo in cui cercavo in rete ispirazione per allestire tavole spaiate, mi è capitato un colpo di fulmine.

La pagina che stavo visitando è questa, e da subito diventarono oggetto del mio desiderio due pattern decorativi dello storico marchio ingkese Mason’s: il Regency e lo Strathmore.

x354-q80Prima di arrivare ai miei acquisti, tra l’altro neanche recenti (ahimè il tempo per scrivere è sempre meno), ecco una brevissima storia del marchio e delle caratteristiche della sua produzione.

Nelle ultime due decadi del Settecento inizia l’attività dei primi Mason nel mondo delle porcellane. All’epoca il commercio londinese di porcellane destinate alle classi più agiate ruotava soprattutto intorno all’importazione dall’oriente.

Alla chiusura delle attività della Compagnia delle Indie Orientali, caldeggiata proprio dai chinamaker che producevano in Inghilterra, e che chiedevano una svolta protezionistica, seguì un’intensa ricerca nella produzione di materiali che fossero simili alla finissima porcellana orientale. I materiali che già venivano prodotti in Inghilterra non avevano le caratteristiche estetiche, né di durevolezza nel tempo, capaci di competere con gli esemplari importati dall’estero, tanto da essere definiti “semi-porcellana”, “porcellana inglese”, “porcellana opaca”, fino al momento in cui, cambiando la composizione dell’impasto da cuocere, si ottenne il bone china, l’ottimo materiale che ancora oggi viene prodotto e apprezziamo.

Per chi volesse approfondire l’argomento, suggerisco questa guida al transferware  scritta da una grande appassionata di potteries inglesi, Donna Bianca.

Ma torniamo alla nostra storia. Nel luglio 1813 Charles Mason  brevetta l’ironstone, un nuovo composto, che riusciva a conciliare la finezza della porcellana con la resistenza della terracotta, ad un prezzo economico, aprendo quindi la strada ad un mercato delle potteries aperto anche alle classi medie.mason-s-regency-8-75-plates-4856-p

Le porcellane Mason’s si caratterizzano da sempre per i colori vivaci e squillanti. L’aspetto finale di questi  pezzi veniva ottenuto attraverso due passaggi decorativi: uno, legato alla tecnica del transferware, prevedeva il trasferimento, appunto, di un disegno applicato; il secondo procedeva ad aggiungere a mano, in un secondo momento e sopra ad un primo bagno nello smalto protettivo, tocchi di colori brillanti che completavano l’opera: gialli, rosa, verdi, azzurri, o più decisi rossi, blu e verdi intensi.

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La qualità dei pezzi continuò ad essere altissima fino al 1830, calando poi progressivamente fino al 1848, quando Charles Mason vendette l’attività in seguito al suo fallimento. La produzione venne rilevata da Francis Morley e cambiò più volte proprietà fino a confluire, in tempi più vicini a noi, nel gruppo Wedgwood (1973).

Il prezzo ridotto della produzione Mason’s ha fatto sì che sul mercato specialistico si trovino ancora parecchi pezzi, e i diversi marchi di fabbrica permette di datarli con una certa precisione (ad ogni cambio di mano della proprietà seguivano più o meno significative variazioni nel marchio).

Questo per arrivare agli oggetti Mason’s che ho trovato e messo insieme. Per un confronto fra le due decorazioni a cui ho già accennato, vi aspetto presto.

Promesso!

(fonte immagini: Pinterest)

Finire… e ricominciare.

Compio gli anni il 30 dicembre. Una data che di solito rimane un po’ schiacciata tra i banchetti natalizi e gli stavizi di Capodanno.

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Due anni fa la sera del penultimo giorno dell’anno avevo organizzato una cena a casa, con mio fratello e mia cognata,  mia sorella e il suo fidanzato, e due coppie di amici. Tra l’altro la cena era stata occasione per scoprire in anteprima che una delle signore invitate fosse in dolce attesa. Comunque, piacevolmente sorpresa dal fatto che tutti avessero accettato l’invito, avevo dovuto risolvere diversi problemi organizzativi: il primo era logistico, dal momento che non saremmo riusciti a sederci tutti a tavola. L’unica soluzione quindi era quella del buffet.

Il secondo problema riguardava il menù. Le portate dovevano tenere conto delle intolleranze alimentari gravi di alcuni ospiti: tra gli invitati c’era infatti una persona celiaca, un’altra che non tollera latticini e derivati del latte. Senza dimenticare che come anticipato le pietanze dovevano essere facilmenti gestibili senza avere un tavolo d’appoggio.

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Alla fine ero riuscita a strutturare un buon menù, con tartine che utilizzavano come base fettine di polenta alla piastra; sformatini di riso; cotechino con purè e lenticchie; una torta fatta in casa che fosse adatta a tutti gli ospiti.

L’anno scorso ho bissato l’invito, cambiando leggermente il menù pur mantenendo le solite caratteristiche.

Quest’anno con mio marito avevamo una mezza idea di concederci una piccola vacanza per Capodanno, ma a inizio dicembre hanno iniziato ad arrivarmi telefonate del genere: «Mi hanno invitato ad un’altra cena per il 30, ma ho detto che sono già impegnata». «Senti noi il 30 ci siamo, vengono anche X e Y, vero?». Felicissima che la serata fosse già diventata una piccola tradizione e che gli invitati avessero anche il piacere di ritrovarsi fra di loro, ho rimandato il nostro viaggetto a inizio anno e ho ricominciato a pensare ai dettagli della cena.

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Ho passato le feste natalizie a letto con una brochite arrivata appena iniziate le ferie, e ho visto vacillare la possibilità di ricevere a distanza di pochi giorni. Ma mi sono rimessa in forze. Giusto il tempo di riconfermare l’invito la mattina del 28, e mia figlia iniziava ad avere le febbre. Per il 30 sera anche mio marito era stato colpito, non prima di aver mandato fiori per me e per la piccola (bouquet grande e bouquet piccolo) e della mia cena di compleanno non se ne è fatto niente. E il viaggetto di inizio anno è ri-rimandato.

Hanno ugualmente sfidato i microbi mio fratello e mia cognata, giungendo eroicamente in cordata umanitaria con medicine e cena pronta oltre ad un bellissimo regalo per me. Abbiamo festeggiato insieme, chi con le bollicine della cantina chi con le bollicine della farmacia, e devo dire che per come era iniziato è stato un compleanno bello.

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Al nuovo anno chiedo tantissima salute, che per quest’inverno abbiamo già dato…

Le immagini di questo post fanno parte della mia bachehca Pinterest Natale 2016: attingo a queste immagini per non pubblicare foto di termometri sopra i 38, cortisonici e antipiretici 🙂

Buon Natale -in ritardo-

e un 2017 ricco di pace e serenità

a voi che leggete!

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A tavola con la regina – tutti i segreti delle serate di gala a Buckingham Palace

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Come vengono allestiti i sontuosi ricevimenti di gala a Buckingham Palace? Che cos’è il Grand Service? Quale portata viene presentata nei piatti con il monogramma della Regina Vittoria? Chi commissionò, in origine, l’elegante servizio in porcellana di Tournai blu e oro con uccelli ed insetti?

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Se siete appassionati di tavole Reali, di tavole straordinarie, di the Queen, di cerimoniale o di diplomazia, non perdetevi la risposta a queste e molte altre curiosità sul sito Altezza Reale.

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Mettetevi in abito lungo, uniforme, black tie, e accomodatevi agli state banquet di Buckingham Palace.

L’articolo che trovate al link è nato da una mia collaborazione con Marina Minelli, storica e principale esperta italiana di royals. Ne sono molto orgogliosa :).